di Barbara Jasjit Kaur Conte
Quando si parla di yoga sentiamo spesso citare la parola saṅgha(t) riferita alla comunità dei praticanti, termine che, nel significato più comune, può essere tradotto in ‘assemblea, compagnia, comunità’. La parola, che affonda le sue radici nel sanscrito e nel pali, si riferisce però alla sola ‘comunità monastica buddhista’. In particolare nella lingua pali, per indicare la comunità laica, si usa il termine parisā (sanscrito, pariṣad). Parisā è la comunità dei ‘risvegliati’, cioè di coloro che pur mantenendo uno stato di laicità hanno però ricevuto i precetti buddhisti e i ‘Tre rifugi’ o ‘Tre Tesori’ costituiti dal Buddha e dal Dharma (la Legge o l’Insegnamento).
Il Kundalini Yoga, invece, ha preso in prestito questo termine dalla comunità sikh che indica come sanghat l’assemblea dei devoti, riunita per ascoltare la parola del Guru. Fatte le dovute premesse la domanda sorge spontanea: cosa centra tutto questo con lo yoga? Il filo che separa lo yoga dalla religione si assottiglia in modo particolare quando si parla del Kundalini. Yogi Bhajan era un Sikh di nascita e la sua cultura religiosa ha sicuramente influenzato la pratica arricchendola di principi che, se applicati in modo corretto, risultano efficaci e immediati, ma forse questo ha generato anche un po’ di confusione intorno a quella che è invece la pratica dello yoga e che di per sé non richiede appartenenza ad alcuna corrente religiosa.
Quando, alla fine degli anni ’60 nello scorso secolo, il Kundalini Yoga è sbarcato in Occidente, la situazione sociale era in grande fermento. Erano gli anni dei grandi movimenti basati su ideali di libertà che oggi, forse, possono persino esserci sfuggiti di mano. Fotografando la situazione di quegli irripetibili anni, si può ben comprendere perché Yogi Bhajan abbia avuto la necessità di portare le persone, che decidevano di praticare lo yoga, su un sentiero che ancora oggi risulta appeso tra laicità e religione. La vita nell’Ashram, il formare comunità di devoti, il dedicarsi alla spiritualità in modo devozionale sono state senza dubbio fasi necessarie del percorso di evoluzione di quei primi praticanti occidentali ma oggi, ha senso ancora parlare di sanghat?
Non è un segreto il fatto che proprio questa confusione su pratica – dello yoga – e cammino spirituale – inteso come religioso – non avvicini le persone al kundalini, le cui comunità di praticanti (shangat) vengono viste spesso come sette. Il Kundalini Yoga è uno stile completo che ha un approccio diverso rispetto ad altre pratiche. E’ un percorso profondo che aiuta a conoscere se stessi e mira a sviluppare il potenziale creativo in ognuno di noi. Non che gli altri stili non portino a questo risultato, visto che lo yoga è uno e il fine è unico, solo che il Kundalini ha un potenziale maggiore.
Praticare Kundalini Yoga quindi vuol dire intraprendere un viaggio di conoscenza. Il praticante non deve sentirsi obbligato ad abbracciare alcuna dottrina religiosa, non deve necessariamente entrare a far parte di una sanghat, non deve indossare un turbante.
Può godersi con serenità e libertà il suo viaggio senza sentirsi né vincolato né tantomeno giudicato. Tutto avviene.
Anche i più scettici, praticando con costanza e continuità, riusciranno a comprendere l’importanza di alcuni principi che accompagnano lo tutto lo yoga: vita sana, alimentazione sana, pensieri sani, agire sano. Principi purtroppo assenti all’interno di sanghat che spesso sono intossicate dal potere e dall’interesse personale e non comunitario. Ognuno di noi si avvicina alla pratica per motivi diversi. Ognuno di noi vive la pratica in modo diverso. Praticare in gruppo è importante. Praticare da soli è importante. Praticare sotto la guida attenta, esperta e onesta di un insegnante è fondamentale e imprescindibile.
La scelta dell’insegnante può avvenire in tanti modi. Spesso si cerca il centro più comodo per distanza casa/lavoro oppure perché gli orari delle lezioni si incastrano con i vari impegni. Altre volte si sceglie per simpatia. Yogi Bhajan diceva: ‘non amate me, amate i miei insegnamenti’. Se ritenete che valga la pena magari riscrivete la vostra agenda settimanale, fate qualche chilometro in più e affidatevi ad un insegnante che si limita a trasmettere la pratica nella sua purezza senza dottrine o precetti che lui è libero di credere e professare e tu sei libero di non abbracciare.
Yogi Bhajan ci ha lasciato un tesoro incredibile, un numero di kriya e meditazioni che non basterebbe un’intera vita per praticarli tutti. A questo, poi, ha donato un valore aggiunto, quella che è stata da lui stesso definita: Umanologia. Una filosofia di vita, una bussola, un vademecum a cui attingere per comprendere chi vuoi essere e cosa puoi fare per diventarlo. Immergiti nella pratica e scegli la tua destinazione. Tutto il resto è sanghat!
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