Nell’Era del 5G si chiama transizione digitale ed è rivolta non solo alla pubblica amministrazione., perché l’obiettivo è quello di accorciare il cosiddetto divario digitale tra cittadini, aziende e amministrazioni. Con l’esecutivo Draghi è stato istituito anche il Ministro dell’innovazione tecnologica e transizione digitale (MITD) e del Dipartimento per la trasformazione digitale, presieduto dall’ex top manager delle telecomunicazioni Vittorio Colao. Per capire cosa possa significare per la P.A. (e non solo) traghettare nel digitale, OASI SANA ha ascoltato Maria Alejandra Guglielmetti: “La transizione digitale può essere iniqua e non inclusiva“.
Economista, ha conseguito un Master in Economia del Lavoro ed un Master in Business Administration. Maria Alejandra Guglielmetti ha più di 30 anni di esperienza in ambito consulenziale, di cui 20 anni in qualità di dirigente. Negli ultimi 15 anni, ha fornito supporto, in ambito Risk Governance e Conformità, alle funzioni di controllo e alle aree di business in numerosi gruppi finanziari, approfondendo anche le novità regolamentari in ambito 5G e tecnologie innovative (cloud, internet delle cose, Big Data, ecc.). Ha sviluppato una rilevante esperienza nel disegno e nell’erogazione di corsi di formazione sulla gestione dei rischi, con focus, negli ultimi due anni, sulle tecnologie innovative e 5G. È stata anche consulente della Banca Interamericana di Sviluppo, ai fini del disegno e dell’implementazione di un modello di supporto alle start up tecnologiche e associated expert presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro.
“La digitalizzazione della Pubblica Amministrazione ci viene indicata dal governo, dall’UE, dall’OCSE, come l’unica strada possibile per rendere il governo più efficiente, efficace, trasparente e reattivo, restituendo in questo modo la fiducia ai cittadini. Questo perché dovrebbe perseguire non solo obiettivi di efficienza ma anche di efficacia e legittimità pubblica. Inoltre, una rigorosa gestione procedurale dovrebbe essere un modo per garantire l’uguaglianza e la trasparenza nella Pubblica Amministrazione.”
Allora perché ci dovremmo preoccupare?
In primo luogo occorre tener presente che le organizzazioni pubbliche sono in gran parte gestite secondo leggi e decisioni politiche, e che la digitalizzazione “spinta” sia nel pubblico che nel privato risponde alla stessa logica che punta soltanto sulla crescita economica. “La tecnologia non è un elemento a sé, isolato dall’economia e dalla società”, sottolinea una studiosa di Harvard, pertanto non può essere “equa e democratizzante” se chi la impiega non persegue questi obiettivi. Non solo, dovremmo anche preoccuparci della velocità. Una trasformazione, tuttora in corso ed iniziata da anni in altri paesi europei, diventa per noi urgente perché dobbiamo «recuperare il tempo perso», ci dice Colao. In questa corsa forzata e acritica, la trasformazione digitale della P.A. in Italia include nei prossimi anni l’ammodernamento ed estensione delle infrastrutture digitali per la connettività del territorio nazionale, lo sviluppo del cloud, il potenziamento dell’interoperabilità per offrire servizi ai cittadini, con la necessaria diffusione dell’Intelligenza Artificiale.
È così arriviamo alla necessità di tener presente ciò che differenzia la P.A. dal settore privato: la spinta alla digitalizzazione dovrà avvenire simultaneamente in istituzioni molto grandi, piuttosto che in singole aziende, con impatti rilevanti in numerosi ambiti: scuole, ospedali, fisco, giustizia, altri uffici pubblici, etc. Occorre quindi chiederci: tutto ciò senza rischi??
Con l’eccezione del rischio di crimine informatico, che deve essere inevitabilmente evidenziato ed ha un costo rilevante senza garanzie di sicurezza (basti pensare che lo stesso Colao ammette, giustificando la spesa, che colossi come Facebook sono continuamente oggetto di attacchi informatici), le linee guida non pongono all’attenzione altri rischi altrettanto importanti per i cittadini. Ne citiamo solo alcuni:
Minaccia di tagli importanti di posti di lavoro. Il ministro non ne fa menzione, focalizzandosi sulla creazione di competenze digitali e l’impulso alle discipline scientifiche, attribuendo questo compito al sistema educativo, ad investimenti nelle P.A. sulla formazione del personale, etc. È vero che nella fase di trasformazione digitale è stata decisa l’assunzione di “esperti”. Rassicurante? Direi di no. Occorre tener presente che la digitalizzazione, per definizione, elimina posti di lavoro, potendo sì crearne altri, ma in misura molto minore. Quindi, nei prossimi anni, si prospetta una riduzione dell’occupazione nel settore pubblico. Se non si cambia paradigma, dobbiamo interrogarci sulla forte incoerenza tra i tempi di trasformazione del sistema educativo, già in forte difficoltà, ed i tempi di realizzazione della trasformazione digitale; sulla possibilità e volontà di creare occupazione alternativa; sulla capacità effettiva di riqualificazione del personale; e, non ultimo, in un’ottica di efficacia, qualità ed inclusione, sulla necessità, chiaramente non palesata dal ministro, di garantire competenze umanistiche atte a far acquisire capacità critiche ed etiche per la progettazione dei sistemi di Intelligenza artificiale ad alto rischio, già rilevati dalla stessa UE: «apparati che si occupano di infrastrutture, attività connesse all’educazione, i dispositivi che hanno un ruolo di salvavita, gli strumenti di reclutamento del personale, i dispositivi a supporto della presa di decisione nel contesto della giustizia, i metodi legati alla gestione delle migrazioni e quelli di polizia predittiva».
Minaccia di discriminazione digitalizzata. Sono numerosi gli studi di caso (alcuni presentati nell’approfondimento precedente) che dimostrano come dati e algoritmi nella fornitura di servizi e programmi pubblici possano creare barriere inique e discriminatorie, impedendo ai cittadini più fragili di accedere ai benefici o ai servizi a cui hanno diritto, è sufficiente un errore di sistema. Basti pensare che attraverso l’interazione digitalizzata, le istituzioni pubbliche gravano sui cittadini chiedendo loro di compilare moduli online, navigare in pagine Web o fornire ulteriore documentazione, introducendo nuovi tipi di esclusione oppure mantenendo, questa volta in modo nascosto, le barriere burocratiche predigitali.
Legati al punto precedente: o rischio che permanga l’esclusione sociale delle categorie “che non hanno dimestichezza con la tecnologia”. Secondo il “pensiero unico” è sufficiente garantire a tutti, anziani, poveri, minoranze etniche, disabili, etc. l’accesso ad Internet, quando è chiaro che le disuguaglianze e le esclusioni derivano dallo stesso modello economico che punta sulla digitalizzazione o rischio di un sistema di sorveglianza e di indirizzo crescente dei nostri comportamenti, anche da parte dello Stato, attraverso la raccolta e l’analisi dei nostri dati in modo centralizzato, in base al principio “cloud first”. Non ultimi, dovremmo considerare i rischi sulla salute e sull’ambiente, come conseguenza della volontà di copertura dell’intero territorio nazionale con connessioni ad altissima velocità, aumentando anche il numero di pc e cellulari.
Consapevole che una questione così complessa non può essere affrontata in un breve articolo, vorrei chiudere ribadendo che la digitalizzazione della P.A. pone questioni anche più critiche che nel settore privato perché ci coinvolge tutti, senza eccezioni, ed accelera la digitalizzazione dello stesso settore privato, spingendoci verso una società sempre più interconnessa “in tempi record” con tutti i rischi annessi discussi negli approfondimenti precedenti. Non si tratta di rifiutare qualsiasi tipo di innovazione, ma di insistere sul fatto che questo percorso non può e non deve essere intrapreso dal Governo senza coinvolgere cittadini, movimenti, sindacati e tutte le popolazioni impattate, partendo dall’identificazione e dalla valutazione dei rischi.