di Silvia Belcastro
“D’ora in avanti non mangerai quasi più niente e la tua vita cambierà”, disse il medico.
Segaligno, emanava irritazione e stanchezza. Gli occhi azzurri cerchiati da occhiali arancione non si addicevano a un genio incattivito dalla stupidità umana. Mi accompagnò all’uscita. “Non sei pazza”, disse. Si mise le mani intorno al viso, imitando i paraocchi dei cavalli: “Sono quasi tutti così, i medici. Vai via. In montagna, al mare. In un luogo più pulito”. Mi strinse la mano nelle sue e mi concesse il primo sorriso, come un segreto tutto per noi: “Allora, cosa farai di questa vita che ho
salvato?“
Lo soprannominai “Il Luminoso”. Dopo vent’anni di dolore fisico e psicologico, non fu
difficile seguire le sue indicazioni, anche se sarebbero state crudeli persino per un corso di
sopravvivenza in ambienti estremi. I miei pasti si trasformarono in quadri zen composti di pochi
colori: riso, pollo, insalata, zucchini e mela. Dopo alcuni mesi comparvero le prime crisi: il cervello
rifiutava di mettere in bocca il cucchiaio. Inventai inganni per bambini: frullai la mela per farne un sorbetto e tagliai le zucchine per riempirle di pollo. Poi le crisi cessarono e il cibo divenne soltanto questo: cibo. Cominciai ad aggirarmi per il mondo come un panda in un supermercato. Perché tutto era “tossico” per me? Cos’era successo al mio corpo? Perché non ero più in grado di distinguere il cibo da un aggressore contro cui aizzare un esercito di mediatori allergici?
La sera, mescolando il riso, mi veniva in mente Fuga di morte, imparata ai tempi della
scuola. La ripetevo a memoria, cercando l’intonazione perfetta: “Nero latte dell’alba lo beviamo la sera / lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo di notte“. Ogni volta che mi sembrava di essere sulla strada giusta per risolvere il problema, qualcosa nel mio corpo non funzionava. I medici mi chiedevano 150 euro per visite inutili. Mi ritrovai a studiare biochimica, immunologia e neurologia. “Nero latte dell’alba ti beviamo la notte / ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti
beviamo la sera“. Un altro cucchiaio di riso, un’altra zucchina, un’altra giornata, altri 500€ di
farmaci. “Beviamo e beviamo / Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive“…
Ad un certo punto ho capito la verità, ma ho impiegato un anno a convincere il Luminoso a
scriverla. La verità è a volte troppo complessa per stare sotto una sola etichetta. Le diagnosi sono controverse, multidisciplinari, legalmente scomode o semplicemente non riconosciute dallo Stato. Alcune cose però sono chiare. Innanzi tutto, da decenni a questa parte una schiera di neurologi, immunologi, tossicologi, internisti, psichiatri, psicologi e biochimici ha dimostrato che le sostanze chimiche sintetizzate dall’uomo sono un fattore determinante nell’impennata di numerose malattie e disturbi psicologici: malattie autoimmuni, neurologiche, neuropsichiatriche, allergie, intolleranze ai cibi e malattie da ipersensibilità. A volte i diversi aspetti – virale, batterico, chimico e psicologico – possono presentarsi assieme ed è impossibile districarli. Tuttavia, la medicina ufficiale non è ancora pronta per un cambio di paradigma e la società sta condannando sé stessa alla malattia e alla morte.
Prima di conoscere il Luminoso, avevo passato dieci anni tra il letto e il divano. All’epoca impiegavo ore ad alzarmi dal letto, le braccia e il collo come metallo incandescente. Mi svegliavo la mattina con le labbra gonfie e il naso chiuso, senza riuscire a respirare. Dopo un paio d’ore dovevo già sdraiarmi, spossata e con la pelle bollente. Non tolleravo il cibo e fui operata tre volte per occlusione intestinale: a 21, a 28 e a 30 anni. Al primo affaticamento perdevo i sensi o vedevo doppio. Dormivo sempre. I profumi e il fumo delle automobili, che fin da bambina mi avevano causato malessere, mi colpivano come un’offesa: di colpo sentivo svanire le forze, lo sguardo si faceva fisso, avevo bisogno di zuccheri e faticavo a respirare. A venticinque anni il dolore attraversava il mio corpo come lame d’acciaio. Pensare, ricordare e decidere cose semplici era difficile. Avevo la sensazione che la mia mente fosse sovraccarica. Avevo attacchi di ansia e panico.
Muovermi era quasi impossibile, “come se” le mie cellule non avessero riserve energetiche e non
riuscissero a respirare. A volte dimenticavo le parole o le scambiavo fra loro: dicevo “tartaruga” invece di “padella” e “albero” al posto di “autobus”. Mensilmente percepivo i miei ormoni salire e scendere modificando il mio umore. I miei sogni notturni erano abitati da miasmi tossici e la mattina boccheggiavo, la mente avvelenata da un cocktail chimico mescolato ad angoscia nauseante. Quando la temperatura nella stanza era troppo alta o non dormivo abbastanza, sentivo che le sostanze chimiche nel mio cervello si alteravano, distorcendo i miei sogni e impedendomi di
svegliarmi. Correvo fuori di casa per respirare aria fresca, svegliare il cervello e scollarmi di dosso
quel senso di vomito misto a depressione. Avevo la sensazione di vivere la vita di qualcun altro,
“come se” la mia identità fosse stata rubata. Non avevo ancora letto libri sul cervello o studi sugli effetti delle sostanze chimiche sul corpo umano, per cui non capivo come fosse possibile essere depressi, ottusi, avvolti in una nebbia mentale (si chiama proprio così) e al tempo stesso sapere di essere un’altra persona. Non sapevo dove avessero origine i pensieri e le emozioni. Vivevo semplicemente nel dolore, come se fosse normale. Eppure la vedevo, questa altra persona in un universo parallelo e luminoso, quella che da qualche parte ero ancora e che sarei stata: era sempre un passo davanti a me, al di là di un velo.
Sembra impossibile che per decenni i medici non abbiano dato peso ai miei sintomi, ma in
verità lo vedo fare spesso con le donne. Ho iniziato a nascondere la mia seconda vita dietro la
battuta facile e un’intelligenza vivace. Di qua dal velo, fingevo di esistere. Facevo lavoretti che mi
consentissero di credere che potevo fare qualcosa. Ero un’attrice di teatro, un’insegnante privata, una pianista. Dipingevo, cercando di mettere al sicuro quel mondo luminoso. Mi sembrava però di non trovare spazio nella società in cui vivevo: non potevo lavorare alle condizioni richieste, perché erano ostili al mio organismo. Quel diritto e dovere morale, sancito dalla Costituzione Italiana, di fiorire e rendere alla comunità un contributo secondo il mio talento e le mie possibilità, mi era negato. Ero moribonda e per qualche ragione non vista o umiliata dalla medicina. La mia mente e il mio corpo ormai avevano un contatto con la persona di là dal velo solo dopo le quattro del pomeriggio e dopo alte dosi di antidolorifici. La maggior parte delle persone alzava le sopracciglia e i medici mi liquidavano coi soliti “problemi psicologici”. Le mie analisi non erano alterate e la ragione era semplice: erano le analisi sbagliate.
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