di Maurizio Martucci
Il problema è politico, sociale, culturale, economico e giuridico: l’Italia non è un paese per giornalisti liberi e indipendenti. Lo abbiamo capito da un pezzo. La paura di esporsi e i conflitti d’interessi la fanno da padrone. Così ogni mezzo diventa buono per ostacolare il lavoro di chi fa informazione d’inchiesta senza peli sulla lingua, con spirito critico e di servizio, ma soprattutto con amore per la ricerca della verità e disinteressata abnegazione in favore di lettori/ascoltatori e opinione pubblica. Si, perché c’è una volontà precisa, una forza tetra nella negazione del libero pensiero, che è sempre pronta a cogliere la palla al balzo, saltandoti addosso al primo momento utile. Perché l’alternativa è semplice: o segui la narrazione dell’unicità dominante, senza disturbare troppo il Neo-Leviatano e i suoi accoliti seguaci, oppure vieni bannato, insultato, isolato. Come sottolinea pure la Federazione Nazionale Stampa Italiana, l’Italia è infatti al 41° posto della classifica mondiale sulla libertà di stampa secondo la graduatoria 2023 stilata da Reporter Senza Frontiere. E non è certo un caso se siamo dietro a Costa Rica (23), Sud Africa (25), Capo Verde (32), Taiwan (35) e Montenegro (39) e ci tocca gioire per aver staccato Nigeria e Ghana : “restano irrisolte questione fondamentali come un intervento normativo sulla diffamazione e le intimidazioni, che sempre più spesso viaggiano online“. Lo confesso pubblicamente: a me sta succedendo esattamente questo. Ormai da molto tempo. Potrei fare numerosi esempi, raccontandovi di censure capestro, di liste di proscrizione con tanto di foto segnaletica montata ad arte da sedicenti debunker, di offese gratuite fino al taglio di inchieste che avrebbero meritato il massimo dell’attenzione. Ma restiamo all’attualità, all’ultimo caso. Una vera e propria cartina di tornasole per un paese cronicamente malato. E purtroppo – a quanto pare – inguaribile.

I fatti. Occupandomi da oltre un decennio in maniera pressoché esclusiva di nuove tecnologie e transizione digitale (se non sono l‘unico giornalista italiano a farlo nella denuncia dei lati oscuri, poco ci manca….), nei giorni scorsi ho dato notizia del microchip alimentare impiantato su una delle nostre eccellenze gastronomiche, il Parmigiano Reggiano. La notizia è facilmente riscontrabile nelle dichiarazioni ufficiali rilasciate dal Consorzio del Parmigiano Reggiano, dal sito della p-Chip di Chicago (azienda produttrice dei microchip ritenuti commestibili), ma pure da diversi organi di settore come Il Gambero Rosso e Ilfattoalimentare. Chi prima, chi dopo il mio lancio, così (loro) infatti hanno scritto: “Un microchip nel Parmigiano Reggiano, il tutto è nato dall’esigenza di limitare le falsificazioni le quali sono aumentate per i prodotti Made in Italy.” E poi: “Combattere i falsi con microchip commestibili: ecco cosa si è inventato il Parmigiano Reggiano“. Infine: “IL VERO PARMIGIANO SARÀ CERTIFICATO DA UN MICROCHIP COMMESTIBILE COLLEGATO ALLA BLOCKCHAIN“. E c’è pure La Voce di New York: “Mamma mia! C’è un microchip nel Parmigiano!”
THE WALL STREET JOURNAL:
IL TIMES DI LONDRA:
“Gli italiani scadenti microchip alla parmigiana per contrastare i truffatori”
THE GUARDIAN:
“Cheese and chips: i produttori di parmigiano combattono i falsi con i microtransponder”
FORTUNE:
“I produttori di parmigiano reggiano in Italia combattono la contraffazione inserendo microchip commestibili nei loro prodotti ”
BUSINESS INSIDER:
Un piccolo passo indietro. Cosa ho fatto? Appresa la cosa, adotto le mie verifiche, vado su siti ufficiali, stampa estera accreditata, testate giornalistiche di mezzo mondo e alla fine – approfondita nella veridicità delle fonti riscontrate – la lancio sui miei canali social. Attenzione: non su carta stampata, non su un giornale, né sito, radio o Tv, ma solo social, cioé il mio profilo Facebook e il mio canale Telegram. Ci faccio due post, distanti 24 ore l’uno dall’altro.
Prima battuta: “ROBOT E MICROCHIP NEL PARMIGIANO REGGIANO. Non solo carne sintetica o farine di grilli, ma nano-tecnologia ingeribile: un’eccellenza dell’enogastronomia italiana diventa digitale! Con la scusa di combattere la contraffazione, partiti i test su 100.000 forme di Parmigiano-Reggiano. Un robot installa microchip con tecnologia blockchain nelle forme di 40 kg. Si tratta di p-Chip di silicio realizzati a Chicago con prestazioni superiori ai chip RFID (carte di credito, bancomat), sopravvivono al caldo/freddo e sono letti da QRCode. “Un lettore portatile può prelevare i dati dai chip, che costano pochi centesimi l’uno e sono simili a quelli che alcune persone hanno inserito sotto la pelle dei loro animali domestici.” Spacciato per edibile, il microchip viene poi mangiato dall’ignaro consumatore di parmigiano (zuppe e minestroni di crosta).”
Seconda battuta: “HA MANGIATO IL MICROCHIP NEL PARMIGIANO REGGIANO. Si chiama Bill Eibon, chimico, vive ad Elyria, Ohio (USA), è direttore tecnico e consulente strategico della p-Chip di Chicago, l’azienda specializzata in microtransponder per la tracciabilità degli alimenti e produttrice del microchip di silicio (come un granello di sale) già nella crosta di 120.000 forme di Parmigiano Reggiano ‘digitale’. “La prossima volta che acquisti il parmigiano, fai attenzione al microchip”, titola The Wall Street Journal pensando ad un’ignara ingestione dei consumatori. “I microchip sono sicuri per gli alimenti, ma è improbabile che vengano mangiati”, ribatte The Guardian (ma in Italia la crosta è per zuppe e minestroni). Ci ha pensato Ebon: ha mangiato il microchip-edibile “senza registrare alcun effetto collaterale. Non vogliamo essere conosciuti come la società accusata di tracciare le persone”.
Punto. Questo ho scritto sui miei canali social. Con tanto di grafico e foto.
Apriti cielo: attacchi, illazioni, accuse, di tutto e di più piovutomi addosso solo per aver:
1) verificato la notizia alla fonte, ovviamente vera, attendibile, certificata, dandola pressoché in esclusiva per il pubblico italiano;
2) averla approfondita tramite committente del servizio (Consorzio Parmigiano Reggiano) e produttore del chip, fornitore del servizio (p-Chip di Chicago);
3) aver instillato il dubbio sulla possibile ingestione del microtrasponder (spacciato come edibile, commestibile, è applicato sulla crosta e c’è il rischio di assunzione, essendo grande come un chicco di sale, quindi invisibile e impiantato su un prodotto alimentare usato tradizionalmente in Italia per zuppe e minestroni);
4) aver scovato la prima persona al mondo che ne ha dichiarato l’assunzione, cioé il primo uomo che ha già mangiato/ingerito il chip del parmigiano. Rintraccio il suo curriculum, scovo i suoi profili social, tiro fuori foto, nome, cognome e virgolettato del tizio, ovviamente offrendo pure il link della fonte (stampa estera statunitense).
E allora? In un paese normale, chiunque direbbe… normale, si, normale che un giornalista faccia il giornalista e dia la notizia. Invece? Macché! L’avessi mai fatto. Mica si sono messi a dire… “a che punto siamo arrivati? adesso dovremo fare la spesa con un rilevatore di microchip? io mica lo voglio il microchip in cucina e nemmeno sul piatto. L’azienda ha informato i consumatori? In caso di ingestione anche involontaria del microtrasponder, quali conseguenze?” No, no… niente di tutto questo, sarebbe stato troppo. Tralasciando gli insulti ricevuti da troll e mitomani alla qualunque, ecco un paio di reazioni che la dicono lunga su come funziona una certa parte d’Italietta:
a) “European Consumers APS ritiene una fake la notizia diffusa in rete di un chip commestibile che il consumatore mangerebbe insieme al Parmigiano Reggiano.” (Marco Tiberti)
b) ZETALUISS: “No, non ci impianteranno microchip col Parmigiano. Sul canale Telegram e la pagina Facebook di Maurizio Martucci, che si autodefinisce giornalista libero (autodefinisce? ma come?…… dal 1996 sono regolarmente iscritto all’Ordine Nazionale dei Giornalisti! Non mi autodefinisco, lo sono di diritto e di fatto! Così come sono libero, diritto naturale dalla nascita che però capisco bene possa risultare antipatico a chi non lo è affatto – NdA) è apparsa la notizia dell’impianto nel Parmigiano reggiano di microchip destinati ad essere ingeriti dal consumatore. (…) – PER POI CONCLUDERE, UNA VERA PERLA DI SAGGEZZA – il fatto che il P-Chip è edibile è solo una precauzione. Essendo impiantato sulla crosta, infatti, difficilmente il chip verrà ingerito, ma nel caso in cui dovesse avvenire è importante che non danneggi l’organismo.” (Giulia Moretti, autoproclamatasi debunker)
Serve altro? Potrei mettermi qui a tagliare il capello in quattro, a passare in rassegna punto per punto, così come avrei potuto riportare parola per parola le dichiarazioni di Bill Eibon, il primo uomo che ha ingerito il microchip nel parmigiano: “Ho mangiato un microchip e nessuno mi sta seguendo, tranne mia moglie, che usa un metodo diverso.” Potrei smontare virgola dopo virgola le astruse falsificazioni, le strumentalizzazioni capziose e le gravi e gratuite accuse ricevute, visto che pure l’autorevole The Guardian non ha escluso la possibilità che ignari consumatori possano mangiarlo, trincerandosi dietro un laconico “è improbabile che vengano mangiati“, che non è certo un “è impossibile che vengano mangiati“. Ma non serve, basta questo. E’ utile per capire le dinamiche all’italiana, per capire da chi siamo circondati, da quale forze oscure vengono agiti certi ambienti e mossi certi personaggi nel sottobosco della macchina del fango, ma soprattutto quest’episodio è utile per comprendere il grado d’arretratezza – principalmente culturale, perché la professione di giornalista mica è per tutti – di un paese che non è disposto a recepire né decodificare la realtà per quella che realmente è. tra microchip e transumanesimo prêt-à–porter. Detto in parole povere, non è affatto un paese a misura di giornalisti liberi. Qui vigono pressapochismo, ignoranza, tabù, prevenzione, diffidenza, provincialismo, odio e muri di gomma. Siamo al 41° posto, siamo in Italia!

