E’ appena uscito il libro Phoenicis tempus caelestis. Il mito della fenice nell’eternità di Roma, per le Edizioni Settimo Sigillo scritto dal ricercatore romano Vittorio Sorci, al quale OASI SANA ha posto alcune domande per approfondire i temi affrontati nel saggio: “la Fenice è la figlia prediletta del Sole che costituisce una delle più arcaiche divinità della religione romana, salutato nell’Urbe, secondo la testimonianza di Cicerone, ogni mattino volgendosi a Oriente ove l’uccello dalle piume auree e rosseggianti ha la sua dimora“.
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1. Le origini del mito della fenice sono egizie ma quando questo uccello favoloso si incontra con Roma?
Subito dopo la vittoria di Azio Ottaviano viene salutato in Egitto come liberatore dal giogo di Marco Antonio e Cleopatra. Il giovane erede di Cesare non è però soltanto il restitutore della libertà che sancisce la fine di ogni conflitto, ristabilendo l’ordine e la letizia, ma è anche colui che reca la pioggia che estingue il nome stesso della guerra, sancendo un nesso tra la conclusione dei conflitti civili, il ristabilimento della legge e la piena del Nilo, assicurata dalle precipitazioni atmosferiche, che determina la fecondità della terra. L’ingresso di Ottaviano in Egitto si trasforma così nell’equivalente della festa di Sed, celebrata quale giubileo della rigenerazione in cui il Faraone, sottoponendosi a un rituale di rinascita, garantiva la restaurazione dell’età dell’oro, cui il Bennu, l’antesignano egizio della Fenice, è legato quale creatura archetipale, tanto da essere definito nel papiro Fayum «Signore della festa del Sed». Viene così sin da subito istituito un legame tra il Bennu, posatosi sulla collina emersa dalle acque primordiali e per questo associato allo straripamento del Nilo che inaugura il primo giorno del nuovo anno secondo il calendario egizio, rigenerando la natura e recando un incremento delle nascite, la felix renovatio temporum, la fine delle guerre e l’Imperatore di Roma.

2. Perché i Romani si sono appassionati sin dall’epoca repubblicana alla Fenice?
Dobbiamo considerare che la Fenice è la figlia prediletta del Sole che costituisce una delle più arcaiche divinità della religione romana, salutato nell’Urbe, secondo la testimonianza di Cicerone, ogni mattino volgendosi a Oriente ove l’uccello dalle piume auree e rosseggianti ha la sua dimora. In più il tratto peculiare della Fenice, sin dal suo esordio nella letteratura latina, è la pietas, perché vola in Egitto a consacrare i mani paterni presso il Nilo, che la caratterizza in senso romano, legandola all’eroe nazionale dell’Urbe, Enea, che subordina qualsiasi istanza personalistica all’adempimento del dovere, alla futura grandezza di Roma.
3. Ufficialmente quando la Fenice inizia a essere accostata all’Impero di Roma?
Con Adriano, con i due superbi aurei del 118 e del 121 volti a glorificare, il primo, la memoria di Traiano asceso al cielo e, il secondo, il ristabilimento del regno di Saturno con la sicurezza e il benessere assicurati dall’opera di pacificazione svolta dal nuovo Imperatore che aveva garantito la sicurezza dei confini, ponendo fine a campagne espansionistiche. L’uccello risorto dalle fiamme diviene nunzio del ritorno dell’età dell’oro, il Saeculum Aureum, in una concezione del tempo ciclica risalente, nella tradizione greco-romana, a Esiodo, ma propria anche dell’India vedica e di altre civiltà. La moneta, poi, non era mera merce di scambio ma il mezzo attraverso cui il Princeps, nella sua veste di Pontefice Massimo, esercitava in virtù del simbolo effigiato un’effettiva influenza spirituale, fecondante, magica, in tutta l’ecumene imperiale, facendo appello alle capacità più elevate di comprensione per ribadire i valori del Mos Maiorum.
4. Ha un significato particolare l’immagine scelta per la copertina del libro?
Si tratta di una gemma in pietra semi preziosa verde, risalente forse al II-III secolo, incisa su entrambi i lati proveniente da Romula, la capitale dell’antica provincia romana della Dacia Inferiore, la cui immagine è pubblicata in Italia per la prima volta grazie alla gentile concessione del Museo Nazionale Militare di Bucarest Re Ferdinando I. La particolarità di questo pregevole reperto di glittica antica rinvenuto in Romania è che da un lato vi è incisa la Fenice, dall’altra la Dea Roma. L’uso delle due immagini in una gemma magica, che è caratterizzata da una funzione apotropaica di allontanare le influenze maligne e di trasferire su di sé la benevolenza divina, dimostra che l’associazione dell’emblema feniceo a Roma Aeterna non è mera propaganda imperiale.

5. Nella letteratura latina dove si trova la descrizione più completa del prodigioso volatile?
Nel carme in 85 distici elegiaci dal titolo De ave Phoenice che costituisce un giallo archeologico-letterario. Ne è stata sempre controversa l’attribuzione. Dal tessuto narrativo emergono chiari richiami orfico-pitagorici, neoplatonici, mitraici e ai culti tradizionali che inducono a ricercarne la paternità in Lattanzio Placido. Questi fu un grammatico o un retore, sicuramente dotato di personalità letteraria, un erudito seguace di un sincretismo magico-religioso di matrice neoplatonica vissuto nel IV secolo. Il mistero della palingenesi iniziatica, in cui l’uomo nel rinnovare se stesso contribuisce alla rinascita del mondo, coniugato alla celebrazione dell’eternità di Roma per mezzo di archetipi egizi utilizzati con perizia sottile, che traspare dal De ave Phoenice, induce a ritenere che il poema non sia stato realizzato per mero esercizio retorico o per fini esclusivamente personalistici, ma piuttosto abbia trovato la sua ragione nel preciso intento, maturato nella cerchia legata al culto della sacralità dell’ordine imperiale, di supportare sul piano sottile, con un testo la cui possanza evocativa è indubbia, l’iniziativa intrapresa congiuntamente dai figli di Costantino nel 348 per celebrare il millecentesimo anniversario della nascita di Roma con la serie monetaria cosiddetta della Felix Temporum Reparatio. In un contesto di grande difficoltà, con i barbari che premevano alle frontiere, maturò la convinzione di ricorrere a un atto analogo a quello compiuto da Adriano di restaurazione dell’Aureum Saeculum con il celebre conio battuto per il Natale dell’Urbe del 121.

6. Hanno un significato particolare i colori della livrea di questo uccello sacro al Sole?
Negli autori latini, sin da Plinio, la livrea della Fenice assume toni cromatici squisitamente romani a esaltarne la natura di uccello solare, ultraterreno e trionfale che l’accomuna all’Imperium del popolo dei Quiriti. Un quadro poetico ne è offerto da Claudiano che ritrae la livrea del «pio alunno» di Febo purpurea, come un abito ricamato da un ago assiro, con il piumaggio che sulle ali sfuma in ceruleo splendore arricchito dall’oro. E se aurea Roma est perché Città divina che fu Saturnia, dimora del Dio dell’età dell’oro, rifulgente del prezioso metallo che orna i suoi templi, sia di giorno, alla luce del sole, che di notte, al bagliore delle fiaccole, anche il celeste e il porpora nell’Urbe sono colori che denotano la realtà soprannaturale. Celesti sono le potenze numinose e celeste è Venere genitrice che all’inizio dei tempi ha insegnato agli uomini ad amare. Celeste è solo la più alta delle nove sfere che compongono l’Universo, quella dove risiede il sommo Dio. Nel mosaico cosmogonico della Villa del Mitreo di Merida celeste è la veste indossata da Saturno che, assumendo le fattezze del Dio Oceano, riunisce l’immutabilità dell’essere al fluire del divenire, al movimento senza fine delle acque del mare del tempo. Purpurea è la luce che inonda i Campi Elisi e quella che annuncia la teofania di Vesta. Purpureo è il manto di cui sono avvolti la Dea Barberini e Febo assiso sul brillante trono di splendidi smeraldi, il carro che quest’ultimo conduce e lo stesso giorno che reca. Non deve allora stupire che il Sole in un papiro magico greco-egizio sia la Fenice, quando Roma stessa è assimilata da Rutilio Namaziano all’astro rubescente che irradia i suoi effetti benefici sul mondo.

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